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Su Netflix dal 22 ottobre 2025 è disponibile la nuova serie Il Mostro diretta da Stefano Sollima che riaccende i riflettori su una delle teorie più controverse del caso: la pista sarda. Un intreccio di amori, vendette e misteri familiari che torna al centro del dibattito grazie a nuove indagini e a un dettaglio mai chiarito: l’arma del delitto.
Nella serie Netflix Il Mostro, la “pista della famiglia emigrata in Toscana da Villacidro” assume un ruolo chiave. Una ricostruzione che non nasce dalla fantasia, ma da elementi reali delle indagini sul duplice delitto di Signa, il 21 agosto 1968. Quella notte, Barbara Locci e Antonio Lobianco vennero uccisi a colpi di pistola mentre si trovavano appartati in auto.
Dagli atti giudiziari dell’epoca emergeva che Giovanni Vinci, un sardo di Villacidro trasferitosi in Toscana, fosse stato amante della Locci. E proprio da quella relazione extraconiugale nasce la nuova rivelazione emersa nel luglio 2025: gli esami del Dna hanno stabilito che Natalino Mele, il bambino presente in auto la notte del delitto, non era figlio del marito anagrafico della donna, Stefano Mele, ma dello stesso Giovanni Vinci.
Un dettaglio che sembra confermare l’intreccio passionale e il movente di gelosia, ma che riapre anche vecchie domande su una possibile connessione tra il delitto del 1968 e la lunga scia di sangue che tra il 1974 e il 1985 fece del Mostro di Firenze uno dei più terribili serial killer italiani.
L’elemento più inquietante che lega la pista sarda ai successivi delitti è l’arma: la stessa pistola Beretta calibro 22, mai ritrovata, avrebbe sparato sia a Signa nel 1968 sia alle altre sette coppie uccise tra le colline fiorentine negli anni successivi. Questo collegamento, oggi confermato balisticamente, pone un interrogativo decisivo: che fine ha fatto quella pistola?
Tre le ipotesi ancora sul tavolo: che uno dei fratelli Vinci, Giovanni, Salvatore o Francesco, abbia continuato a usarla nei delitti successivi; che l’arma sia rimasta all’interno del clan familiare, magari passata a nuove mani; oppure che sia stata ceduta o smarrita, finendo in possesso di un nuovo assassino.
Durante le prime indagini, questa pista fu a lungo sottovalutata, complice anche la rivalità tra le diverse forze investigative. Il processo a Pietro Pacciani, poi assolto in appello, prese infatti una direzione completamente diversa, concentrandosi sul profilo psicologico del contadino di Mercatale più che sul destino dell’arma.
Le indagini sul clan dei sardi e quelle sul cosiddetto “mostro contadino” seguirono binari paralleli che non si toccarono mai davvero.
Mentre il giudice istruttore Mario Rotella e il Ros dei carabinieri tentavano di ricostruire la rete dei rapporti tra i Vinci, la Procura fiorentina percorreva un’altra strada, concentrandosi su ex detenuti e profili devianti, fino ad arrivare a Pietro Pacciani.
Pacciani, accusato e poi assolto, morì proclamandosi innocente, mentre i suoi ex amici Mario Vanni e Giancarlo Lotti vennero condannati in via definitiva. Eppure, molte incongruenze restano aperte, a partire proprio dal legame balistico tra la pistola dei sardi e gli omicidi attribuiti al “mostro”.
Un altro elemento oscuro è la lettera anonima che nel 1982 riportò l’attenzione sul delitto di Signa, fino ad allora dimenticato. Fu quella segnalazione a collegare per la prima volta il caso Locci-Lobianco agli altri delitti delle coppiette. Ma chi la scrisse? Un membro del clan dei sardi, mosso dal rimorso? O lo stesso Mostro, che sfidava gli inquirenti? Nessuna certezza, solo ipotesi e suggestioni che ancora oggi avvolgono di mistero la vicenda.
La storia della famiglia di Villacidro è segnata da violenza e lutti. Anni prima dei fatti di Firenze, un’altra donna del clan morì asfissiata dal gas in un episodio mai chiarito del tutto. Un copione di dolore e vendetta che sembra ripetersi, lasciando spazio a domande senza risposta. Oggi, grazie ai nuovi accertamenti genetici e al rinnovato interesse mediatico portato da Il Mostro su Netflix, la pista sarda torna d’attualità. Ma la verità resta sospesa, sepolta sotto decenni di errori e omissioni.
Come scrisse un magistrato che lavorò al caso: “La storia del Mostro di Firenze è una tragedia corale. Più che un solo assassino, ci restituisce l’immagine di un’Italia che non ha mai smesso di guardarsi allo specchio e di non riconoscersi.”
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