piatto di mozzarelle
Mozzarelle campane servite su un piatto. Fonte Shutterstock, foto di Barmalini

10 presidi Slowfood campani da assaggiare a ogni costo

Formaggi, peperoni o albicocche, ecco quali sono le eccellenze della Campania da tutelare
A cura di Alessandro Cipolla
Articolo pubblicato il:
12 Agosto 2025

In un paese come l'Italia dall'incredibile tradizione agroalimentare - che varia non solo in base alla Regione, ma spesso anche spostandosi di pochi chilometri -, la salvaguardia è fondamentale per fare in modo che questi prodotti tradizionali non finiscano stritolati dalle logiche della grande distribuzione e dell'agricoltura intensiva. In Campania in totale sono 100 i presidi Slowfood, ma abbiamo deciso di selezionare 10 eccellenze che meritano assolutamente di essere assaggiate almeno una volta.

I presidi Slowfood hanno la missione di salvaguardare prodotti agroalimentari locali che sono minacciati dall'avanzare dell'agricoltura industriale. Per questo motivo da oltre vent'anni la Fondazione Presidi Slowfood assegna questi riconoscimenti alle eccellenze locali, al fine di tutelare la loro esistenza e sostenere i produttori.

Volete conoscere 10 presidi Slowfood campani da assaggiare a ogni costo? Allacciate le cinture, prendete carta e penna - o un foglio note digitale per i più tecnologici - e preparatevi a questo viaggio nel mondo delle eccellenze della Campania da tutelare.

 

Presidi Slowfood Campania, 10 prodotti che devi provare

Scegliere 10 presidi Slowfood campani nella lunga lista stilata dalla Fondazione non è stato facile. In questo elenco abbiamo cercato di inserire eccellenze locali di vario genere che, ognuno a loro modo, raccontano un pezzo di storia di quella meravigliosa regione che è la Campania.

Papaccella napoletana

papaccella napoletana
Papaccella napoletana. Fonte Shutterstock, foto di Ennar0

La papaccella napoletana è un peperone tipico delle province di Napoli e Salerno. A caratterizzarlo sono due cose. In primis la forma, tozza e schiacciata con delle bacche piccole. Poi il sapore: dolce, fragrante e molto aromatico, con una polpa spessa e croccante. Caratteristiche queste che lo rendono ideale per le conserve tradizionali sottaceto oppure sottolio. La papaccelle comunque possono essere consumate anche fresche, magari arrostite oppure saltate in padella o al forno, La Fondazione ha deciso di tutelare questo prodotto che una volta veniva coltivato negli orti di casa, ma ora sta diventando sempre più raro visto che in molti preferiscono coltivare delle tipologie più popolari.

Ciliegia Somma dei Monti Lattari

Chi ha visitato la Costiera Amalfitana non ha potuto fare a meno di notare una catena montuosa che si estende alle spalle della costa: i Monti Lattari. Alle pendici di questi monti cresce la ciliegia Somma, tipica dei comuni di Gragnano e Pimonte. Colore rosso con punta bianca, polpa soda e sapore dolce, queste ciliegie sono coltivate in zona da circa sei secoli, ma alcuni anni fa c'è stato il rischio di vedere scomparire questi prodotti ora finiti sotto l'ala protettiva della Fondazione. Durante la raccolta - che solitamente avviene a fine primavera - a giugno c'è la festa annuale del borgo di Castello dove si celebra la ciliegia Somma.

Ceci di Cicerale

ceci di cicerale
Ceci di Cicerale. Fonte Shutterstock, foto di Dario Toledo

I ceci di Cicerale sono una varietà antica di legumi coltivati da secoli nell'omonimo piccolo borgo, nel cuore del Cilento. La sua storia è molto particolare. Stiamo parlando infatti di un legume originario dell’Asia occidentale, ma che poi ha trovato il suo luogo ideale nella parte meridionale della Campania. Hanno una consistenza morbida e un sapore deciso, ideali per le zuppe. Altra particolarità è che non hanno bisogna di irrigazione - ben meno di altri trattamenti - durante la loro coltivazione che avviene in modo naturale, ma poi devono essere raccolti a mano. I ceci di Cicerale sono stati messi a rischio dallo spopolamento delle campagne della zona, fortunatamente venendo di recente riscoperti e valorizzati.

La pecora Laticauda

L'unicità della pecora Laticauda già è riscontrabile nel suo nome. In latino infatti "latis" vuole dire larga e "cauda" invece coda. Il riferimento di conseguenza è alla particolarissima coda grassa, una delle sue caratteristiche distintive. Allevata soprattutto nelle province di Avellino, Benevento e Caserta, queste pecore - frutto di diversi incroci - sono robuste e adatte ai pascoli montani o collinari, con il loro peso che arriva a superare anche i 70 chili. Per secoli ha rappresentato una risorsa preziosa per le comunità locali, fornendo latte di alta qualità utile anche per produrre caciocavalli, pecorini e ricotte. Non da meno è il sapore e la tenerezza della sua carne, soprattutto degli agnelli molto apprezzati nella cucina regionale.

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Cacioricotta del Cilento

cacioricotta
Cacioricotta, tipico formaggio del Sud dell'Italia. Fonte Shutterstock, foto di Katrinshine

Se la pecora è la grande protagonista di molti allevamenti campani, il Cilento invece è terra da sempre di capre. Nelle sue aree interne uno dei formaggi più tradizionali e genuini è il cacioricotta del Cilento. Il suo nome deriva dalla particolare tecnica di coagulazione del latte di capra, che unisce la lavorazione del cacio (formaggio) e della ricotta. Si tratta di un formaggio che si può consumare fresco oppure grattugiato. Per secoli è stato uno degli alimenti base per la comunità locale, oltre che della sua economia. Grazie alla Fondazione Presidi Slowfood oggi continua a essere lavorato a mano e in maniera tradizionale.

Alici di Menaica

Non poteva mancare anche un prodotto della tradizione marinaia in questa sorta di top 10 dei Presidi Slowfood della Campania. Le Alici di Menaica ci portano di nuovo nella zona del Cilento e, più precisamente, al borgo di Marina di Pisciotta in provincia di Salerno. Le alici di certo non sono una rarità, ma in questo caso l'unicità è la tecnica di pesca - molto antica -, al giorno d'oggi praticata solo da una decina di barche della zona. Questa tecnica affonda le sue radici addirittura nell'Antica Grecia e si basa appunto sulla "menaica", un particolare tipo di rete che consente di pescare solo le alici più grandi. Una volta pescate le alici vengono pulite manualmente una a una, staccando la testa ed eliminando le interiora: per la conservazione poi non si usa il ghiaccio, ma solo vasi di terracotta cosparsi da strati di sale, motivo per cui vanno lavorate subito.

Albicocche del Vesuvio Crisommole

Albicocche del Vesuvio Crisommole
Albicocche del Vesuvio Crisommole. Fonte Shutterstock, foto di FVPhotography

Nella zona del Vesuvio il frutto più diffuso è l'albicocca, chiamata a livello locale "crisommole" e che supera anche il fico per diffusione. Unendo questi puntini, appaiono chiari i motivi per cui le Albicocche del Vesuvio Crisommole sono una sorta di simbolo delle culture alle fertili pendici del famoso vulcano. In questo caso però non stiamo parlando di una varietà, ma di un gruppo di tipi di albicocche come la "Pellecchiella", la “Boccuccia” o la“Preveta Bella". Tutti questi tipi di albicocche coltivate nella zona del Vesuvio però sono accomunate dal sapore dolce, dalla polpa succosa e dal colore acceso. La raccolta - spesso da alberi secolari - avviene tra giugno e luglio ed è manuale come spesso avviene in zona.

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Salsiccia rossa di Castelpoto

Ci spostiamo invece nella provincia di Benevento per scoprire la salsiccia rossa di Castelpoto, un insaccato tipico del piccolo borgo omonimo che si erge a 300 metri sul livello del mare alle pendici del Monte Taburno. Si tratta di un territorio molto fertile, famoso anche per la qualità dell'allevamento e per una lavorazione artigianale rimasta quasi immutata nel tempo, sfidando le logiche della modernità. La salsiccia rossa di Castelpoto si prepara con carne di maiali allevati allo stato quasi brado, con l'aggiunta di sale, finocchietto selvatico e, soprattutto, peperone rosso dolce o piccante, una sorta di ingrediente segreto che dona a quest'insaccato il colore così acceso. Una ricetta che ha origine nell’Alto Medioevo e ora è stata messo sotto tutela dalla Fondazione.

Mozzarella nella mortella

Mozzarella nella mortella
Mozzarella nella mortella. Fonte Shutterstock, foto di Massimiliano Marino

Il nome mozzarella nella mortella non deve trarre in inganno: in realtà è un caciocavallo freschissimo, tipico della zona della parte interna del Cilento. Il suo nome deriva dalla mortella, il mirto selvatico sulle cui fronde viene adagiata la mozzarella dopo la produzione caratterizzandola. Anche in questo caso la tecnica di lavorazione racconta uno spaccato di storia locale, oltre che dell'ingegno dei nostri avi che ca va sans dire non disponevano dei frigoriferi. I rametti di mirto così servivano a mantenere il prodotto fresco, con la tradizione che è rimasta fino ai nostri tempi. Il sapore fresco e leggermente acidulo è arricchito dal sentore del mirto, ma occorre ricordare che la mozzarella nella mortella è un prodotto che deve essere consumato fresco.

Oliva Aitana dei Colli Tifatini

Infine siamo ora nella provincia di Caserta - precisamente nella zona dei Monti Tifanini - per scoprire l'ultima eccellenza campana che deve essere assolutamente assaggiata. L'Oliva Aitana dei Colli Tifatini è famosa per la sua polpa, così morbida che si stacca con grande facilità dal nocciolo. Inoltre è un'ottima oliva da tavola. Dopo la raccolta che solitamente avviene tra novembre e gennaio, vengono deamarizzate - come tutte le olive da mensa - in salamoia seguendo un’antica pratica che utilizza acqua, sale e aceto rosso, una lavorazione secolare che esalta il sapore senza alterarne le qualità.

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Alessandro Cipolla
Redattore

Marchigiano di nascita e romano d'adozione, giornalista pubblicista e laureato al D.A.M.S., ama scrivere e raccontare tutto ciò che lo circonda, ma non chiedetegli di prendere l'aereo...

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