nazionale italiana calcio femminile
La nazionale di calcio femminile dell'Italia durante un allenamento. Fonte Shutterstock, foto Marco Iacobucci

Calcio femminile, intervista a Diana Stefani

Intervista alla ex presidente della Res Roma che ci ha spiegato come si è evoluto il calcio femminile in Italia
A cura di Alessandro Cipolla
Articolo pubblicato il:
1 Agosto 2025

Il calcio femminile per alcune settimane è riuscito a conquistare spazio nelle prime pagine dei giornali grazie alla sua Nazionale, arrivata fino alla semifinale degli Europei - uno degli eventi sportivi più attesi del 2025 - ed eliminata dalla forte Inghilterra solo dopo dei controversi supplementari. Ora che si sono spenti i riflettori del campionato europeo, il rischio è che possa tornare a essere una sorta di sport di serie B, un po' come succede alla scherma o alla ginnastica ogni volta che volge al termine un'Olimpiade. Nell'ombra del calcio femminile, però, lavorano duro ogni giorno migliaia di atlete, tra cui Diana Stefani, insieme al loro staff, tra sacrifici e poche gioie economiche o mediatiche.

Per capire al meglio la storia del calcio femminile in Italia, com'è evoluto negli ultimi anni e, soprattutto, quali sono ancora le problematiche, abbiamo voluto intervistare proprio Diana Stefani, una sorta di pioniera del pallone in rosa. Presidente dell'associazione culturale “Accademia per le Arti per le Scienze e per lo Sport” (A.P.A.S. Onlus) e apprezzata opinionista sportiva dalla grande fede giallorossa per la Roma. In passato Diana è stata la presidente della Res Roma Calcio Femminile, società che prima di confluire ufficialmente nella AS Roma militava già nel Campionato Nazionale di Serie A Femminile. Insomma una figura chiave per tutto il movimento sportivo femminile che negli anni ha intrapreso diverse battaglie anche a livello istituzionale, con delle proposte innovative di cui parleremo in maniera più approfondita in seguito.

L'evoluzione del calcio femminile: intervista a Diana Stefani

Nazionale italiana di calcio femminile

Dagli inizi con la Res Roma fino al riconoscimento del professionismo per la Serie A. Nel mezzo tante battaglie fatte e nuove proposte per cercare di dare lo slancio definitivo a tutto il movimento. Ecco come Diana Stefani ha voluto dipingere la situazione attuale del calcio femminile in Italia.

La tua storia nel calcio femminile è iniziata quando era considerato come uno sport di nicchia

Sì vero, in un periodo ancora molto oscuro per il calcio femminile, la presidenza della Res Roma è stata per me un’esperienza significativa che mi ha dato l’opportunità di scoprire un mondo nuovo, entusiasmante e meraviglioso, ma al tempo stesso pieno di difficoltà, ingiustizie, discriminazioni e che, proprio per questo, aveva bisogno di essere migliorato, incentivato e valorizzato. Fin dall’inizio, mi sono appassionata, perché ho visto quanto il calcio fosse importante per quelle ragazze… vedendole rinunciare alle ferie per andare in ritiro con la squadra, arrivare ogni giorno lì, sul campo, magari di corsa, dopo una giornata di lavoro, per allenarsi in modo costante e continuativo e poi giocare ogni sabato con tutto l’amore e la forza di volontà di cui sono capaci, nonostante le enormi difficoltà, ho capito che per loro il calcio è una vera, grande passione.

Quali problematiche hai incontrato?

Proprio per tentare di tutelare le calciatrici e sovvertire in qualche modo certi pregiudizi - che purtroppo ancora esistono nel nostro Paese -, ho
quindi scelto di impegnarmi in tal senso, mettendo in campo tutte le energie e le risorse di cui sono capace! Grazie alla guida dell’indimenticabile Mister Fabio Melillo, che desidero ricordare con grande stima e affetto, sono riuscita a sviluppare un grande progetto (a cui sto tuttora lavorando), con l’obiettivo di offrire a tante ragazze che amano questo sport e che, al pari degli uomini, lo praticano con impegno e sacrifici, molta più attenzione e visibilità. Quindi, fin da subito, ho capito la necessità di modificare prima di tutto le normative, con l’obiettivo di far riconoscere lo “status” di professionista anche ai settori femminili, da sempre relegati nel dilettantismo.

Cos'è cambiato con l'introduzione del professionismo nella nostra Serie A femminile?

Questa svolta storica, tra un limite e l'altro, ha comunque rappresentato un grande successo per lo sport e per le donne, offrendo loro maggiori diritti, tutele, opportunità e riconoscimenti. Un passo importante verso la parità di genere. Con il passaggio al professionismo, le calciatrici di Serie A possono ora firmare contratti professionistici, grazie ai quali possono versare l'Irpef e ricevere i contributi previdenziali, che garantiranno loro il fondo di fine carriera e il diritto alla pensione e possono ricevere anche le necessarie assistenze mediche in caso di maternità e infortuni, che spesso compromettevano l’attività delle atlete. Per chi ha subito infortuni gravi, che a volte hanno danneggiato la qualità della vita, una volta finita l’attività, il professionismo consente di avere anche punti di invalidità. Il calcio è quindi diventato un lavoro a tutti gli effetti, una carriera a cui poter aspirare e a cui dedicare tutte le proprie energie.

Nelle altre serie invece c'è sempre lo status di dilettante

partita calcio femminile
Partita tra Milan e Università Bocconi. Fonte Shutterstock, foto di Paolo Bona

Il movimento, per crescere, ha bisogno di questo: dare la possibilità di concentrarsi esclusivamente sullo sport, senza dover arrivare al punto di dover scegliere se giocare un Europeo perdendo il lavoro o investire sul proprio futuro, trascurando lo sport. Pur trattandosi di un piccolo passo, arrivato in ritardo rispetto alla maggior parte delle principali federazioni europee, tuttavia permette alle ragazze di tutta Italia di poter sognare un futuro da vere atlete, come già succede per i coetanei maschi. Non tanto per i guadagni, però, visto che la FIGC ha deciso di uniformare i salari minimi della nuova Serie A femminile professionistica a quelli della Serie C maschile (ovvero lo stipendio non può superare la cifra di circa 30 mila euro lordi l’anno), un importo assai lontano dai lussuosi guadagni della Serie A maschile!

Qual è il tuo progetto per cambiare le cose?

Questo è ovviamente solo un inizio: la mia battaglia non si ferma qui, ma continua a sostegno di tutto il movimento del calcio femminile, in un progetto più ampio che ne possa favorire meglio lo sviluppo in Italia, come nel resto d'Europa... Infatti, sarebbe più giusto che il professionismo fosse esteso anche alla Serie B femminile, come vale anche per quella maschile e, ovviamente, l’auspicio è che questo passaggio possano farlo presto anche le altre Federazioni sportive: la parità di genere professionale deve esistere in tutti gli sport! Inoltre, sarà necessario ridimensionare i salari, in modo che ci sia un equilibrio più equo tra quelli del femminile e quelli del maschile… Sarà dura, lo so, sicuramente la strada è ancora lunga, ma io non mollo!

Cosa manca secondo te all'Italia per colmare il gap con gli altri Paesi?

Il professionismo rappresenta il punto di partenza per un cambiamento culturale più ampio, che richiede ora continuità, investimenti e attenzione reale alla parità di genere nello sport. Per il calcio femminile, competere dal punto di vista economico è impossibile. Questo perché, nonostante la crescita, investitori e sponsor non guardano ancora a questa realtà con lo stesso interesse, a causa della mancanza di visibilità da parte dei mass media. Infatti, nonostante sia una realtà ormai consolidata, che ha avuto in questi anni un forte sviluppo in tutta Europa, qui in Italia il calcio femminile non è ancora considerato e seguito come merita. Di conseguenza, il riconoscimento dei diritti e le tutele per le giocatrici hanno portato a maggiori costi per i club, non sempre ripagati dai ricavi commerciali. Pertanto, il sistema si è finora retto sui fondi statali. Ma ora la situazione rischia di peggiorare…

Spiegaci bene perché rischia di peggiorare

Nella nuova legge di Bilancio, i fondi per il professionismo femminile sono stati tagliati e questo rende ancor più arduo il percorso, rischiando di compromettere i traguardi finora raggiunti e lo sviluppo futuro del Movimento. Tutto questo accade a causa di una mentalità che, purtroppo, ancora penalizza fortemente la donna. Da sempre, infatti, la pratica sportiva, è associata all’esaltazione della mascolinità e, quindi, il fatto che l’agonismo femminile non abbia ancora trovato consensi unanimi è dovuto anche e soprattutto ad una errata comunicazione. L'argomentazione che il calcio, in particolare, sia un terreno naturale per i maschi, date le loro caratteristiche fisiche, è ancora ampiamente condivisa nella nostra cultura. Troppo deboli, troppo emotive e poco competitive: questi gli stereotipi ancora troppo spesso attribuiti alle donne.

Un retaggio culturale difficile da superare

La realtà è che la ragazza sportiva, a livello mediatico, appare solo a scopo pubblicitario e non come un vero modello di atleta. Io mi auguro invece che, in un futuro prossimo, si possa rendere giustizia a questa immagine, sottolineandone le peculiarità sue proprie e non facendo solo un confronto con gli uomini! Il mio impegno, infatti, durante il mio incarico di presidente della Res Roma è stato rivolto anche a dare una maggiore visibilità della squadra a livello mediatico, con iniziative che potessero far crescere l’interesse e favorire così anche un maggior coinvolgimento di pubblico. Dei passi sono stati fatti, in tal senso, ma non sono ancora sufficienti. Per questo motivo sono ora impegnata in un progetto ancora più ampio e incisivo, mirato a promuovere e sostenere la parità dei diritti delle donne nello sport.

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Alessandro Cipolla
Redattore

Marchigiano di nascita e romano d'adozione, giornalista pubblicista e laureato al D.A.M.S., ama scrivere e raccontare tutto ciò che lo circonda, ma non chiedetegli di prendere l'aereo...

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