Ci siamo mai realmente soffermati sul perché, oggi, prenotiamo sempre tutto? Una volta, se volevi cenare, entravi in un ristorante, ti sedevi e ordinavi. Oggi devi prenotare pure lo slot per un cappuccino al bar, perché la sola idea di dire “ci vediamo per un caffè?” suona ormai sovversiva, se non te esci subito con un Doodle condiviso.
La nostra esistenza si è trasformata in una gigantesca app di prenotazioni: il ristorante, il cinema, la palestra, il parrucchiere, la mostra d'arte, la spiaggia libera (sì, ormai va prenotata anche quella, un ossimoro!). E tutto, ça va sans dire, con largo anticipo, altrimenti si resta fuori.
Prenotiamo tutto, prenotiamo sempre, prenotiamo troppo. Anche le telefonate. Ormai si comunica tramite messaggi vocali: io ti dico quello che voglio dirti e tu lo ascolti quando hai tempo. In differita. Le telefonate "in diretta" vanno annunciate, non sia mai. Non siamo più pronti a ricevere una telefonata non annunciata, perché non ce la sentiamo di rispondere. Così, su due piedi.
Persino i funerali – dicono – conviene prenotarli prima: mica vogliamo che il caro estinto rimanga senza fiori o, ancora peggio, senza un catering disponibile proprio quel giorno.
In tutto questo eccesso di comunicazione pianificata, che ci porta a vivere incastrati in una griglia oraria, la spontaneità è stata messa in attesa. Ma quando è accaduto esattamente questo passaggio?
La pandemia da COVID-19 ha sicuramente accelerato il processo: il distanziamento ci aveva costretti a contingentare ingressi, fissare orari e a non lasciare nulla al caso. Ma, una volta finita l’emergenza, non abbiamo più saputo tornare indietro. Prenotare è diventato il modo di sentirsi al sicuro, di non rischiare l’imprevisto, di assicurarsi un posto, sia fisico che simbolico, nel mondo.
C’è poi un altro livello di lettura del fenomeno "prenotiamo tutto", più sottile, ed è la prenotazione come segnale di appartenenza. Chi riesce a bloccare il tavolo in quel ristorante o la lezione con quel maestro di yoga, dimostra di essere “dentro”, di avere accesso. E qui l'organizzazione lascia il posto alla distinzione sociale: non prenotiamo solo per esserci, prenotiamo per dire che ci siamo, prima degli altri.
La prenotazione compulsiva, allora, non è – come può essere percepita erroneamente – il tramite attraverso il quale si può raggiungere il mito dell’uguaglianza universale: tutti davanti allo stesso modulo online, stessi campi da compilare, stessi bottoni da cliccare. Ma è un’olimpiade silenziosa: vince chi ha la connessione più veloce, chi sa aggiornare la pagina al millisecondo giusto, chi ha scaricato l’app segreta che ti piazza tre posizioni avanti.
Non è democrazia, è darwinismo digitale: ufficialmente siamo tutti uguali. Praticamente restano fuori sempre gli stessi.
Quegli stessi che, liberatisi ormai dall'ansia del restare esclusi, si godono il loro caffè non prenotato, nel desolato baretto all'angolo che hanno trovato per caso, in quel momento. E, sorseggiandolo, avvertono una stretta di ritrovata felicità.
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