Il boom dell’avena in Italia: perché è il nuovo superfood amato da milioni di famiglie
Il cereale naturalmente dolce e saziante per il benessere quotidiano

La pigrizia alimentare è uno dei mali del secolo. C’era un’epoca, e non parlo del Medioevo, ma di una manciata di anni fa, in cui le persone si sedevano a tavola, prendevano un frutto e – udite udite – lo sbucciavano da sole. Oggi, invece, scorrendo velocemente lo sguardo mentre guido con passo deciso il carrello del supermercato che, naturalmente, ha una ruota sbilenca e per farlo andare dritto serve la forza che ci vuole a mantenere la rotta su una barca a vela con un mare grado 6, noto che nel reparto fresco del supermercato, vendono cose incredibili come i chicchi di uva sfusi in una vaschetta - quindi non attaccati al graspo - e i mandarini sbucciati. Per di più, già a spicchi.

A questo punto, il problema della scarsa manovrabilità del carrello passa immediatamente in secondo piano. La scusa ufficiale per giustificare questa cultura del prêt à mordre è il “risparmio di tempo”. Perché, si sa, viviamo vite talmente frenetiche, che non possiamo permetterci quei ventidue secondi necessari a togliere la buccia di un mandarino o a staccare gli acini dal graspo. Quindi non è pigrizia. È comodità.
Il pensiero che qualcuno abbia sbucciato quel mandarino vi ha sfiorato? E non vi fa orrore? A me la frutta la sbucciavano i miei quando ero piccola. Poi basta. E la sola idea che uno sconosciuto qualunque abbia manovrato il mandarino che potrei mangiare, mi fa ribrezzo. Stessa cosa vale per l'uva. Questioni igieniche a parte (ah, in una nota catena di supermercati, di cui non dirò il nome, vendono anche confezioni di due uova già sode: orrore al cubo!), la riflessione è andata sula regressione mentale e sociale che tutto questo rappresenta. Quella che ci viene venduta come l’ennesima conquista del progresso, dunque, non è tanto l’acqua su Marte, ma il cliente finale della catena alimentare che non si profuma più le mani con la buccia del mandarino. In pochi anni siamo stati capaci di trasformare un atto millenario in un lusso da delegare a qualcun altro.

La pigrizia alimentare non è una novità. In fondo l’obiettivo è sempre stato lo stesso, da millenni: ridurre il tempo che passa tra la fame e la soddisfazione della stessa. Ma negli ultimi anni è successo qualcosa di diverso: delegando la preparazione di alcuni cibi, abbiamo delegato anche il gesto. E un gesto che sparisce, è anche relazione che sparisce. Sbucciare un mandarino o bollire un uovo erano rituali minimi, momenti di contatto fra noi e ciò che ci nutre. Un ultimo baluardo di intimità domestica.
E, mentre ci crogioliamo nella convinzione di aver risparmiato tempo prezioso, comprando quella vaschetta di uva, non riflettiamo sul fatto che abbiamo trasformato la nostra pigrizia alimentare in valore aggiunto: l'uva costa 5 euro al chilo. I chicchi di uva staccati dal graspo, 8,50. La differenza di prezzo, piuttosto sostanziale, la chiamano “servizio”. In realtà si tratta di ottundimento, torpore collettivo, anestesia cognitiva diffusa... Insomma, niente di bello. E l'impoverimento non è solo economico, perché paghiamo di più la stessa cosa, rimanovrata prima di essere confezionata, l'impoverimento è anche sociologico. Ci stiamo perdendo i gesti. E i gesti, si sa, sono cultura.

Intanto, mentre prendo un cappuccino in un bar di Roma, il mio occhio cade sulla vetrina che ho davanti dove, oltre a cornetti e altri prodotti da forno, ci sono anche delle fette di pane già imburrate e spalmate di marmellata. Anche queste prêt à mordre. Dell'insalata in busta parliamo un'altra volta.
Sipario.
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