Assortimento di Umami
Shutterstock - Photo by Alexander Prokopenko

L'umami, il quinto elemento del gusto

Un sapore scoperto dai giapponesi ma sulle nostre tavole da sempre
A cura di Fabio Giusti
Articolo pubblicato il:
28 Maggio 2025

«Che sapore ha?», «Umami!». Questa è la risposta che, sempre più spesso, capita di sentire trovandosi al cospetto di un piatto particolarmente gustoso. E, al netto di un nome di origine evidentemente orientale (umami viene infatti dal giapponese), le caratteristiche di quello che ormai viene chiamato il “quinto gusto” sono ormai parte integrante della nostra cultura gastronomica. In realtà, si tratta di un sapore che esiste da sempre nella cucina italiana, ma che solo di recente abbiamo imparato a identificare e a chiamare con il suo vero nome. Fino a non molto tempo fa, infatti, l’umami era percepito come qualcosa di esotico, legato esclusivamente alla cucina di area nipponica. Poi la conoscenza si è diffusa, prima tra gli chef di tutto il mondo e poi nelle cucine domestiche.

Ma che cos'è esattamente l’umami e a cosa corrisponde?

Zuppa di ramen vegana ricca di sapori umami con noodles ramen, funghi shiitake e pak choi al vapore
Shutterstock - Photo by Ingrid Balabanova

Intanto va chiarito che l'umami non è né una moda recente né, tanto meno, una qualche invenzione di natura commerciale. Le sue origini risalgono al 1908, quando il chimico giapponese Kikunae Ikeda, professore all’Università di Tokyo, iniziò a studiare un gusto diverso dai quattro canonici (dolce, salato, amaro e acido). Umami, che in giapponese significa proprio “saporito”, è infatti un gusto ben distinto e riconoscibile, che non rientra in nessuna delle categorie tradizionali. Ikeda ne individuò, ad esempio, alte concentrazioni nelle alghe kombu, ricche di glutammato monosodico, ma anche in altri alimenti come il katsuobushi (piccoli fiocchi di tonno essiccato e affumicato), nei funghi shiitake e nel miso.

Secondo l’Umami Information Center, questo sapore è il risultato della presenza, in un alimento, di sostanze come il glutammato, l'inosinato e il guanilato, naturalmente presenti in carne, pesce, verdure e latticini. Non si tratta quindi di un gusto tipico solo della cucina asiatica, in quanto anche ingredienti tradizionali europei, come pomodori, asparagi e formaggi, lo contengono. Ikeda in primis lo capì, proprio assaggiando questi cibi durante un viaggio in Europa. Una volta tornato in Giappone, poi, mise a punto un metodo per produrre il glutammato monosodico su scala industriale, brevetto che risale allo stesso anno delle sue scoperte.

L'umami, un gusto familiare

L’umami è particolarmente apprezzato dai bambini, il cui gusto non è ancora condizionato dalle abitudini culturali, e lo ritroviamo anche nel latte materno, che contiene un’elevata quantità di glutammato. Questo lo rende un sapore familiare e universalmente piacevole per l’essere umano. Del resto il riconoscimento dei sapori ha sempre avuto un ruolo cruciale nella sopravvivenza della specie: l’amaro e l’acido segnalano pericoli, come tossine o cibi guasti, mentre il dolce e il salato indicano nutrienti utili, come zuccheri e sali minerali. L’umami è invece associato alle proteine, essenziali per la nostra salute: stimola la salivazione, aiuta la digestione e favorisce l’assorbimento dei nutrienti. Alcune ricerche hanno identificato recettori per l’umami non solo sulla lingua, ma anche nello stomaco.

Il gusto umami come alternativa al sale

Sale rosa dell'Himalaya, limoni, funghi e baci di cioccolato per simboleggiare i sapori acido, salato, umami e dolce
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È proprio l’equilibrio tra l’umami e gli altri sapori di base a rendere un piatto particolarmente gustoso. Il riconoscimento scientifico di questo gusto è arrivato solo nel 2002, quando sono stati identificati i recettori specifici in bocca. E nel 2013, la valorizzazione dell’umami nella cucina giapponese – come alternativa salutare ai grassi – ha contribuito all’inserimento della washoku (la cucina tradizionale nipponica) tra i patrimoni immateriali dell’umanità dell’UNESCO. Contrariamente all’idea che il glutammato monosodico possa essere dannoso, studi condotti dalla Tohoku University in Giappone hanno mostrato che la sua carenza sensoriale può portare a una riduzione dell’appetito e della massa corporea, in particolare tra gli anziani. Inoltre, usare ingredienti ricchi di umami consente di diminuire la quantità di sale nelle ricette senza perdere in sapore.

Fermentazione e stagionatura

Come dicevamo l'umami è presente in moltissimi alimenti: dai pomodori al tonno, dalla carne di manzo al pollo, passando per funghi, cipolle, piselli, broccoli e asparagi. Fermentazione e stagionatura ne aumentano la presenza: è il caso del Parmigiano Reggiano, del prosciutto crudo, della salsa di soia e delle salse di pesce. Non a caso, tutti ingredienti spesso usati per arricchire e rendere più appetitosi i piatti. Le cucine di tutto il mondo, in fondo, non fanno altro che confermare con la pratica ciò che la scienza ha formalizzato solo di recente, ossia che l’effetto sinergico di glutammato, inosinato e guanilato è stato da sempre sfruttato nelle ricette tradizionali. Che si tratti di riso e soia, pasta e Parmigiano o un brodo ricco di carne e verdure, molti dei nostri piatti più amati sono deliziosi proprio grazie all’umami.

Il ruolo del glutammato monosodico

Il glutammato monosodico, uno degli additivi alimentari più studiati, un tempo si estraeva da alimenti naturalmente ricchi di proteine come le alghe o i funghi, mentre oggi si produce attraverso fermentazione da barbabietole, canna da zucchero o melassa. È sicuro, migliora il gusto dei cibi e contiene solo un terzo del sodio rispetto al comune sale da cucina, il che lo rende utile anche in una dieta a basso contenuto di sodio. In alcune culture è utilizzato come condimento da tavola, mentre in Occidente si trova soprattutto nei cibi pronti o lavorati, indicato in etichetta come glutammato monosodico, E621, ajinomoto, vetsin, o altri sinonimi. Anche se alcune persone riferiscono sensibilità al glutammato, gli studi scientifici non hanno trovato prove certe di reazioni avverse significative. La cosiddetta “sindrome del ristorante cinese” è quindi un mito. Come per tutto, la chiave sta nella moderazione.

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Fabio Giusti
Redattore

Nato a Napoli e adottato da Roma, passa la quasi totalità delle sue ore da sveglio a leggere libri, ascoltare musica e vedere molti (ma mai troppi) film. E, se consideriamo che ha 48 anni, sono davvero un sacco di ore. Nel tempo che resta scrive. Dei libri che legge, della musica che ascolta e dei molti (ma mai troppi) film che vede.

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